Il cervello umano è capace di cose incredibili, che hanno consentito alla specie umana di raggiungere enormi traguardi nella scienza, nell’arte e nella cultura. È però in grado di creare grande sofferenza sia a noi che agli altri, perché quest’organo sofisticato che abbiamo in testa è, in realtà, una macchina vecchia di milioni di anni. Abbiamo un cervello complicato che ci ha consentito di arrivare fino a dove siamo, ma non senza pagarne dei costi.
Il nostro cervello è complicato, ma… come è fatto?
Il nostro cervello può essere visto come costituito da tre parti più o meno recenti. La più antica e profonda è quella che viene chiamata “cervello rettiliano”. Regola i comportamenti che spingono gli animali (compresi gli umani) a soddisfare i bisogni fisiologici (ad esempio nutrirsi, bere, respirare), a fuggire dai pericoli o combatterli, e ad accoppiarsi sessualmente. Abbiamo poi una parte più recente chiamata “cervello mammifero” (o “sistema limbico”). Questo gestisce le emozioni di base come l’ansia, la tristezza, la rabbia e la felicità, evolute per portare gli animali a mettere in atto comportamenti connessi a determinate motivazioni, di cui fanno parte non solo quelle coordinate dal cervello rettiliano, ma anche quelle orientate alla socialità, alla collaborazione e alla cura della prole. Il cervello rettiliano e il sistema limbico costituiscono il “cervello antico”.
Gli esseri umani hanno poi sviluppato strutture che svolgono funzioni molto più sofisticate, quali l’immaginazione, la capacità di pensare al futuro (e quindi fare progetti) o riflettere su ricordi passati (per imparare più appieno da essi). Consentono persino di “pensare ai propri pensieri” e perciò monitorare l’attività stessa del cervello e formulare credenze su di essa. Le strutture dietro queste funzioni sofisticate costituiscono la parte più “nuova” del cervello, che ha permesso alla nostra specie di arrivare fino al giorno d’oggi.
Normalmente i due cervelli, antico e nuovo, lavorano in maniera coordinata. Tuttavia, può capitare che qualcosa si inceppi. È ciò che accade quando le immagini e i pensieri che il cervello nuovo elabora vengono vissuti come attivanti, quasi come se fossero minacce “reali”. Per fare un esempio, il pensiero di fare una figuraccia con una persona con cui dobbiamo vederci può creare ansia e imbarazzo quasi come se ciò stesse accadendo realmente. Lo scenario immaginato può quindi motivarci ad evitare il dolore e a rimanere a casa, anziché uscire. Oppure può capitare che le emozioni del cervello antico si dirigano verso i nostri stessi processi di pensiero. Perciò possiamo sentirci arrabbiati nei nostri confronti per aver commesso un errore in passato, oppure provare vergogna per il fatto di preoccuparci molto per un evento futuro. Gli esempi sono potenzialmente infiniti!
Secondo gli studiosi, questi “cortocircuiti” sono caratteristici dei soli esseri umani e del loro cervello complicato, mentre gli altri animali non sembrerebbero soffrirne. Una zebra, dopo essere scappata a un leone ed essersi messa in salvo, non starà a ripensare all’accaduto o a criticarsi. Tornerà piuttosto a fare quello che faceva prima, come brucare dell’erba. Il cervello nuovo consente invece agli esseri umani di mantenere vivo nella loro mente uno stimolo di minaccia, anche quando il pericolo non è presente.
Better safe than sorry
Ma perché tendiamo a farci questo tipo di problemi? E perché, quando abbiamo questi “cortocircuiti” pensiamo solo cose brutte? Per una volta non possiamo pensare qualcosa di felice e positivo?
In realtà anche per questo c’è un’ottima ragione. Da un punto di vista evolutivo, è molto vantaggioso essere pessimisti e prepararsi al peggio. Così facendo, in una situazione in cui ci può essere un pericolo, se questo si realizza siamo più pronti a fronteggiarlo. Se invece non si presenta alcuna difficoltà, il problema semplicemente non si pone. Viceversa, essere troppo “ottimisti” può essere svantaggioso. Nel caso in cui vi sia effettivamente un pericolo, l’ottimismo rispetto all’esito della situazione può rallentare o prevenire quelle che sarebbero invece reazioni molto adattive.
Riprendiamo l’esempio del leone. Alcuni nostri antenati, di fronte a un felino di 200 kg, hanno reagito scappando immediatamente, assecondando senza battere ciglio un impulso proveniente dalle parti più antiche del loro cervello. Magari il leone non l’hanno neanche visto, perché hanno pensato in anticipo a come evitare i luoghi dove sapevano di poterlo trovare. Questi antenati hanno avuto più possibilità di sopravvivere e riprodursi.
Possiamo immaginare che ci siano stati anche altri antenati che, vedendo un leone avvicinarsi, hanno pensato qualcosa del tipo «Però è pelosetto! Magari mi sta mostrando i denti perché vuole giocare». Questi antenati hanno avuto meno probabilità di sopravvivere e riprodursi.
Per queste ragioni la natura ha selezionato gli individui più bravi a garantire la propria sopravvivenza, a prescindere dal fatto che questa venisse al costo di un cervello complicato più reattivo agli stimoli negativi, che a volte vede il marcio dove il marcio non c’è. «Better safe than sorry» si dice in inglese.
Ora che so queste cose, che me ne faccio?
Buona domanda. Abbiamo parlato molto di evoluzione e di strutture cerebrali, ma non è che nei momenti difficili possiamo “ripararci” agendo direttamente sui nostri neuroni per farli funzionare diversamente da come sono stati progettati. Il benessere psicologico passa piuttosto e in primo luogo dalla consapevolezza. Ovviamente è importante imparare a fare ordine nel caos che può essere il nostro cervello. Ci può essere di grande aiuto saper riconoscere i pensieri che abbiamo in certe situazioni, le emozioni che ne scaturiscono e i comportamenti che mettiamo in atto come conseguenza. Ma spesso non basta neanche questo. C’è uno step ulteriore che di frequente viene trascurato, nonostante sia centrale, ossia capire che non è colpa nostra se il nostro cervello complicato è fatto così. Non abbiamo scelto noi di avere quest’organo che vede solo cose brutte e che si intrappola da solo nelle sue operazioni, facendoci stare male.
Realizzare questo può sembrare una cosa da poco, ma è ciò che ci consente di metterci in una posizione molto più utile per prenderci cura di noi. In alternativa, il rischio è quello di peggiorare la situazione criticandoci per il fatto stesso di avere certi pensieri, emozioni o reazioni. Quante volte ci sarà capitato di pensare «Sono sempre il/la solito/a», «Non dovrei sentirmi così» o «Non cambierò mai»? Quando questo accade, non solo stiamo vivendo un momento difficile, ma addirittura ci incolpiamo per questo. È la beffa dopo il danno!
Sospendere questi giudizi e coltivare un’attitudine più compassionevole nei propri confronti è ciò che ci consente di prenderci veramente cura di noi stessi. Se vogliamo stare meglio, è responsabilità nostra prendere in mano la situazione e provare a gestirla. Ma di certo non è colpa nostra se siamo letteralmente fatti per funzionare in un certo modo.
Chiedere aiuto
Fare tutto questo non è semplice e a volte possiamo avere bisogno di aiuto. In questi casi può essere molto utile rivolgersi a uno psicologo per avere il supporto necessario a comprendere le proprie difficoltà e sviluppare un atteggiamento compassionevole verso noi stessi e i nostri cervelli complicati.
Nel caso io sono disponibile. Prenota una prima consulenza online o in presenza su Firenze.
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